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Il nobile vino rosso di Federico II

Il nostro viaggio alla scoperta del Nero di Troia lungo i sentieri della Murgia pugliese, a bordo di una Lancia Zagato del ’71 con lo spirito di Federico II come guida.

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on eravamo preparati alla grandezza del leggendario uomo che stavamo per incontrare.
Federico fu un maestro di multi-tasking: astronomo appassionato, agro-manager innovativo, politico compassionevole, sostenitore delle scienze, architetto, scrittore ed esperto falconiere. Inoltre è stato il re di Sicilia, re di Gerusalemme, re dei romani, duca di Svezia, ha fatto 13 figli con 7 mogli e 6 figli con altre 6 donne, e amava degustare il “corposo vino di Troia”.

Dopo quasi 800 anni lo spirito di Federico II vive ancora in questa terra della Puglia del nord. Tutti quelli che abbiamo incontrato parlavano con orgoglio dello Stupor Mundi, un mito in questa arida terra di sole, mare e (oggi) pale per l’energia eolica. Siamo qui per scoprire la terra del Nero di Troia, un vitigno autoctono coltivato sin dai tempi di Federico II di Svevia.

Girovaghiamo per le stradine di campagna dell’alta Murgia a bordo di una Lancia Zagato bianca  del ’71 con i finestrini abbassati e una calda brezza profumata di finocchietto e salvia selvatica riempie i nostri polmoni. L’odore della storia greco-albanese è nell’aria.

Prima fermata a Montegrosso, un paesino assonnato nella Murgia, per parlare con Pietro Zito, cuoco autentico a chilometro zero, nel suo ristorante Antichi Sapori. “Qui si scoprono tante realtà e luoghi diversi. Spostandosi pochi chilometri dal mare si trova un paesaggio con prodotti totalmente differenti”. Ci racconta una storia curiosa, quasi leggenda: Federico II era seguito da due cuochi, uno tedesco e uno pugliese. È risaputo che tra i due preferiva la cucina pugliese. Un giorno il cuoco pugliese si ammalò gravemente e in punto di morte il cuoco tedesco gli chiese: “Perché i tuoi piatti sono migliori dei miei?”. “Olio extra vergine di oliva”, rispose. E tutti i piatti erano accompagnati dal vino della sua terra, che beviamo ancora oggi, il Nero di Troia.

A meno di 20 km dagli orti spontanei di Pietro, nel cuore del parco nazionale della Murgia, scorgiamo l’imponente skyline di Castel del Monte, arroccato su un picco roccioso. Domina il paesaggio. Un capolavoro di Federico che è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. È una combinazione elegantemente austera di elementi classici, medievali, islamici orientali e gotici cistercensi nord europei.

Il progetto del castello, basato sul numero otto, crea simmetrie di luce durante il solstizio d’inverno e l’equinozio d’estate. Possiede un rigore matematico e astronomico intriso di simbolismo che è stato fonte di attrattiva per molti studiosi nel corso dei secoli. Ha otto torri ottagonali, otto stanze trapezoidali al piano terra e otto al primo piano, tutte posizionate per formare altri ottagoni. Si presume che nel cortile aperto del castello ci fosse una piscina ottagonale. Immaginate come doveva essere farsi un bagno notturno osservando la volta celeste.

Ci rimettiamo in strada in direzione di Trani per incontrare Cristoforo Pastore, enologo che collabora con diversi produttori di vino della zona. Ci vediamo in un bar lungo il porto per assaggiare un bicchiere di Nero di Troia. Cristoforo ci racconta di due ipotesi legate all’etimologia di questo vino: una deriva dal greco, dove vi sono parentele genetiche con latre uve, mentre l’altra sarebbe una deformazione del nome Croia, o Krujë, la vecchia capitale dell’Albania. Il rapporto tra la Puglia e l’Albania fu molto forte, con scambi di merce, uomini e cultura e, perchè no, anche di qualche vite.

Una grande aromaticità si spande dal mio calice: al naso sento i profumi delle piante grasse selvatiche che abbiamo incontrato lungo la strada poche ore prima, mentre in bocca un’esplosione di frutti rossi speziati con un pizzico di pepe nero.

Cristoforo prosegue: Federico II pare coltivasse il suo vino in Alta Daunia, la terra del paesino di Troia, conosciuto per lo spettacolare rosone della sua cattedrale romanica. E poi ci ha parlato della virtù della buccia dell’uva del Nero di Troia: sembra contenere una notevole presenza di resveratrolo, un forte agente antiossidante. “Da sempre i vecchi parlavano delle qualità salutari e pro-longevità del Nero di Troia, chi lo beve, si dice, campa 100 anni”.

La maggior parte degli studi storici indica che la durata media della vita nel 1200 era di circa 35 anni. Federico II visse fino all’età di 56 anni. Il sessanta per cento sopra la media. Dobbiamo chiederci perché?


Una vite da salvare

L’incontro con Enrico Togni, intrepido vignaiolo della Val Camonica, custode e promotore di una varietà d’uva autoctona dal grande valore: L’Erbanno.

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n caldo aroma invitante si diffonde dalla cucina di Cinzia fino al nostro tavolo. Ci serviamo un piatto di coniglio brasato con la polenta, le verze e le patate dell’orto. Sono in estasi da comfort food, quando l’uomo seduto di fronte a me, riportandomi alla realtà, mi racconta che il coniglio lo ha macellato lui quella mattina.

Capisco subito che Enrico Togni, il compagno di Cinzia, è una persona a cui piace fare.

Camuno autentico, 38 anni e chioma scompigliata, ci racconta l’emozione di quando ha iniziato a lavorare nelle vigne ereditate dal nonno, che le aveva piantate più di 70 anni fa. Ricorda la prima cosa che ha notato di quelle piante: le uve non erano tutte uguali!

Così, insieme con sua mamma, ha fatto una mappa dettagliata del filari del vigneto. Dopo aver identificato Nebbiolo, Barbera e Marzemino, rimanevano delle piante misteriose.

Successive analisi hanno dimostrato che erano rari esemplari di Erbanno, antico vitigno autoctono camuno a bacca rossa,che deve il suo nome alla localltà della Val Camonica ai piedi del monte Altissimo dove è stato coltivato per generazioni.

Proprio ora lo stiamo assaggiando, in purezza ma vinificato in rosa. Fresco e piacevole, sorprendentemente capace di accompagnare i nostri piatti saporiti. Dopo la scoperta, l’Erbanno è stato iscritto nel Registro Nazionale delle Varietà della Vite all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige. Quel giorno Enrico ha abbandonato gli studi in giurisprudenza per dedicarsi alla terra. Era il 2003.

Nel tempo, vivendoci accanto, ha imparato a conoscere a fondo questo vitigno con maturazione tardiva, resistentissimo alle avversità climatiche e alle malattie. Una super roccia, perfettamente adatto a una vita naturale, e poco bisognoso di trattamenti.

Le caratteristiche dell’uva, come quelle di qualsiasi essere vivente, sono formate dal clima, dal suolo e dall’uomo e con il tempo si trasformano. E’ il concetto che i francesi hanno condensato in una sola parola: terroir. Una pecora bergamasca è diversa da una pecora sarda, pur essendo entrambe ovini. E così è per l’Erbanno che, pur geneticamente uguale al Lambrusco Maestri, vitigno emiliano, è mutato, adattandosi al territorio in cui si è trovato a vivere, e ha dato origine a una nuova varietà.

Oggi Enrico custodisce circa 3 ettari di vigneto, di cui 2 a Erbanno, che producono nelle annate migliori circa dodicimila bottiglie. Biologico certificato, biodinamico per natura (e senza certificato). Ha regalato le barbatelle (i “cuccioli” della vite) ad alcuni amici viticoltori che stanno piantando nuove vigne. Non è geloso, vuole diffondere quest’uva, condividerla e vedere come gli altri la interpretano.

Così facendo, con lo sforzo di tutti quella che oggi è una rarità domani potrebbe diffondersi fino a diventare un simbolo comune dell’intera zona. Quando sto per finire il mio coniglio, arrivano in tavola i formaggi camuni.

Prodotti con latte d’alpeggio, affinati in malga anche fino a dieci anni, hanno nel Silter Dop, una pasta dura di latte vaccino, il rappresentante più famoso. Li accompagniamo con una bottiglia di Erbanno (sempre in purezza questa volta rosso), annata 2014.

Sono colpito dal suo colore: scurissimo come una mora matura, non passa luce, Pantone 518C.
Lo assaggio: sento una freschezza di montagna, un carattere forte, selvaggio, impulsivo e la mineralità della roccia che c’è sotto di noi.

Roccia antica, di una valle di origine glaciale (come, dall’altra parte del lago d’Iseo, quella della Franciacorta). Ampia, usata fin dalla preistoria per valicare le Alpi, come tutti i luoghi di passaggio la Val Camonica è ricca di biodiversità: ne sono un esempio, insieme con l’Erbanno, altri vitigni locali, alcuni quasi estinti, come il Valcamonec e il Sebina, che alcuni viticoltori stanno recuperando.

Ad Alex Bellingheri, della Agricola Vallecamonica, dobbiamo invece due vini-rarità ottenuti dal Ciass Negher, altra uva camuna a bacca nera.

Al termine del pranzo Cinzia ci confida le sue preoccupazioni: “Non è per niente facile essere piccoli produttori, si lavora per un anno intero e bastano dieci minuti di grandine per non portare a casa più nulla”.

Ma Enrico e Cinzia hanno una soluzione: diversificare allevando pecore, producendo miele, verdure, salumi e birra. E naturalmente altri vini autoctoni, legame indissolubile con la loro terra.


Un paese per giovani

Il cameriere newyorkese disse: “È uno champagne italiano!” Questo è esattamente quello che la nuova generazione di produttori di Franciacorta non vuole sentire.
E stanno cercando di cambiarlo.

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irca vent’anni fa, in un piccolo ristorante del West Village di New York ho ordinato la mia prima bottiglia di Franciacorta, un po’ riluttante dopo che il cameriere aveva detto: «È come lo Champagne. È uno Champagne italiano!». Qualche settimana fa, sono andato a visitare alcuni produttori di vino in Franciacorta, nella campagna lombarda, e uno di loro ha esordito: «Non vogliamo più sentire quella definizione: Franciacorta è Franciacorta».

La ragione principale del mio viaggio era scoprire come la nuova generazione, le figlie e i figli delle famiglie che producono vino, sta sfatando questa reputazione, e come sta affrontando il passaggio di responsabilità per gestire il business in un futuro imprevedibile.
La terra di Franciacorta è annidata in una sorta di anfiteatro di colline formato dai ghiacciai, con il Lago d’Iseo per palcoscenico. I venti dalla pianura incontrano quelli che arrivano dal lago, creando un microclima perfetto che consente di produrre 16,5 milioni di bottiglie l’anno del vino che, nel 1995, si è conquistata la prima Docg in Italia dedicata alla produzione esclusiva con metodo classico.

Alla prima tappa, vicino a Erbusco, ho incontrato Giulia Cavalleri e sua figlia Diletta. In una stanza dai soffitti alti, con travi di legno scuro e imponenti tele del ’500, mi hanno accolto con la sicurezza acquisita attraverso le tante generazioni che le hanno precedute: «La nostra famiglia coltivava terra a Erbusco dal 1450», raccontano. Diletta sembra molto più giovane dei suoi 32 anni, ha studiato Economia alla Bocconi e ora cura l’amministrazione, il marketing e la comunicazione dell’azienda. Suo fratello Francesco, 33, è ingegnere e gestisce la produzione.
Ma c’è stato un tempo in cui nessuno dei due pensava di fare questo lavoro: i genitori non li hanno mai spinti a seguire i loro passi, al contrario li hanno incoraggiati a lasciare Brescia e a girare il mondo. Diletta ha studiato Storia dell’arte a Londra per un anno e mezzo, mentre Francesco ha fatto l’istruttore di scuba diving alle Maldive. «Ma avendo le vigne nel sangue, ritornare a Erbusco è stato naturale», commenta Diletta.

Una delle sfide che le stanno a cuore è di elevare la consapevolezza della qualità del Franciacorta senza compararlo allo Champagne. «Il vino è figlio del territorio, qui le uve Chardonnay si esprimono in modo diverso, il suolo è diverso. Il Franciacorta è più fresco, più floreale». E poi c’è un’altra sfida: non è facile essere donna nel mondo del vino. «L’azienda ha 70 agenti nella rete vendita, tutti uomini».
Sua mamma, Giulia, dice: «Era più facile per me 27 anni fa, ero la prima donna a lavorare nella mia famiglia. C’era l’energia del ’68 e sembrava ci fossero molte opportunità. Oggi nel settore del vino l’Italia è maschilista. È un problema culturale, ed è un peccato, perché le donne possono portare un contributo positivo. Siamo multitasking, questo ci rende bravissime manager. E poi abbiamo un ottimo naso, lo abbiamo nel Dna per riconoscere i nostri figli, per sentire se il cibo è pronto o buono da mangiare, per apprezzare i profumi. Diletta è dotata di un bellissimo naso e continua a stupire tutti alle degustazioni. E poi, in genere, siamo più etiche degli uomini».

A cinque chilometri di distanza, dall’altra parte di Erbusco, sono arrivato in un’altra azienda vinicola familiare, la Uberti. Il business del vino è fatto di relazioni, e ho pensato: chi conosce le relazioni meglio di una famiglia italiana? È ovvio che praticamente quasi tutte le etichette italiane sono di proprietà di famiglie. L’azienda degli Uberti risale al 1793 e oggi è gestita da donne.
Eleonora e le sue due figlie – Francesca, 33, e Silvia, 35 – mi hanno parlato dell’importanza della fiducia all’interno della famiglia che crea un modello di successo. Francesca gestisce amministrazione, marketing e vendite, e dice che i ruoli tra sorelle sono stati decisi naturalmente. «A Silvia è sempre piaciuta la cura degli animali e delle piante, ed è stato ovvio per lei diventare enologa e agronoma. Deve proiettarsi 4 anni nel futuro per fare una bottiglia di Franciacorta, e ha le competenze tecniche per i passaggi necessari. Io devo avere fiducia in lei».

Da piccola, Francesca voleva lavorare in famiglia, ma a un certo punto sua mamma ha suggerito di fare un’esperienza fuori. «Trovo assurdo costringere i propri figli a fare un lavoro, devono decidere da soli, e avere un riferimento fuori aiuta questa decisione», dice Eleonora. Francesca ha lavorato 3 anni in amministrazione presso una fabbrica di guarnizioni. «Mi è servito molto. Ho imparato l’importanza dei rapporti umani: tutti in azienda dovrebbero essere coinvolti».
I pro e i contro di lavorare in famiglia si amplificano con tre donne. «Spesso ci confrontiamo animatamente, ma è divertente anche quello. Ogni tanto siamo spigolose e ci vuole un maschio che smorzi l’attenzione». E qui entra in gioco il padre Agostino con il suo pragmatismo («Faccia conto che io non ci sono», mi ha detto quando ci siamo presentati). Dagli Uberti, anche il cane e i gatti sono femmine.

All’azienda Ricci Curbastro, nelle vicinanze di Capriolo, ho incontrato Riccardo e suo figlio Gualberto. «La nostra storia racconta l’evoluzione che ci ha portato all’attuale sviluppo tecnologico», ha detto Riccardo durante il tour del suo Museo agricolo e del vino, che contiene oltre 3.000 oggetti. «Siamo una delle prime aziende italiane certificate per aver ridotto l’emissione di anidride carbonica. Produciamo con pannelli solari tutta l’energia che consumiamo».
Gualberto, 25 anni, è la diciottesima generazione dei Curbastro. Si è appena laureato alla Bocconi in Economia e sta imparando che la narrazione è essenziale nel business del vino. Condivide con suo padre l’idea di mantenere le tradizioni introducendo innovazione, e anche una certa precisione. Riccardo fa notare a suo figlio che un attrezzo di cento anni fa non era nella giusta posizione in una stanza nel museo e gli chiede di occuparsene.

La sfida di Franciacorta secondo Gualberto è di comunicare il territorio. «Nel consorzio siamo abbastanza allineati, ma possiamo fare di più. I francesi sono stati bravissimi nel comunicare Champagne, noi siamo più piccoli ma con più unicità. Il nome Franciacorta deve essere la cosa più importante quando parliamo del nostro territorio che esprime un carattere, una freschezza e una mineralità unici».

All’ultima fermata ho trovato Giancarlo Bozza con suo figlio Michele sotto un sole luminoso, nel giardino davanti alla villa acquistata nel 1985. L’azienda La Montina (il nome deriva dalla famiglia Montini, di Papa Paolo VI) è situata a Monticelli Brusati, nella parte più a nord della Franciacorta.
Il padre Giancarlo ricorda quando si beveva il vino rosso locale per colazione, e ha parlato del calo nei consumi negli ultimi 50 anni, anche se oggi si beve meno ma meglio. Ha spinto suo figlio Michele, 46 anni, a studiare ragioneria perché la sua filosofia di fare vino comprende tutti gli aspetti, non solo l’essere enologo.

A 24 anni, Michele è entrato in azienda con l’obiettivo di gestire la parte commerciale e il marketing. Tra di loro scherzano e si sfidano di continuo: «Michele torna dal Giappone e dice che il nostro Brut deve essere ancora più Brut, io dico che deve rimanere così, ma vince sempre lui!».
Villa La Montina è stata trasformata per avere 600 posti per eventi e ricevere turisti. «Siamo d’accordo, invece», dice Giovanni, «che il consorzio debba insistere sull’enoturismo. Milano è una destinazione importante per gli stranieri, e come Parigi fa con la zona dello Champagne, la Franciacorta è in una posizione perfetta per le gite alla scoperta dei nostri vini».

E Michele aggiunge: «L’unico modo per aumentare la reputazione del brand è fare bere il nostro vino. Siamo convinti della nostra eccellenza, quindi quando un americano assaggia un Franciacorta, che costa meno di uno Champagne, e dice wow!, se è qui o in un ristorante a New York non importa: abbiamo un nuovo cliente».


Say Pignolo like an Italian

Gli stranieri amano la lingua italiana. I nomi delle uve autoctone sono una sfida per loro da pronunciare, ma una volta che imparano, non riescono a smettere di ripeterli. Li fa sentire come un vero italiano.

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rova a metterti nei miei panni, quelli di un americano che arriva in Italia 28 anni fa. E prova a pronunciare queste tre parole rapidamente insieme, ad alta voce: pig, no, lo. Attenzione: pig deve essere detto come la parola inglese maiale, cioè, la lettera i come la i in “fill”, non “feel”,  se conosci l’inglese.
E ora prova di nuovo: pig, no, lo. Hai appena pronunciato il nome dell’uva autoctona friulana pignolo come ho fatto io appena sbarcato in Italia. E naturalmente, mi sbagliavo, non ero «pignolo» abbastanza.

Per uno straniero parte del fascino di sperimentare nuovi vini italiani sta nell’imparare i loro nomi.
Siamo innamorati della vostra lingua. Dinamica, melodica, seducente e teatrale, proprio come gli italiani possono essere, a volte è uno stereotipo, ma non così lontano dalla verità. Ovunque nel mondo siamo costantemente sollecitati dall’italianità, grazie alla vostra diaspora (ci sono 250 milioni di italiani nel mondo), TV, cinema, e naturalmente, cibo e vino.

Anche il nome Friuli Venezia Giulia è affascinante: allude alla sua storia complessa e tessuto culturale. FVG è un generoso contribuente del patrimonio italiano (il più ricco nel mondo) di uve autoctone. Conoscere le origini dei loro nomi (e come pronunciarli correttamente) crea una connessione significativa e memorabile al luogo ed è un ottimo modo per «illuminare» questi vini altrimenti poco conosciuti sul mercato internazionale, e anche in Italia al di fuori della regione FVG.

Per noi non indigeni riuscire a dire “Pignolo” correttamente dà, anche solo per un attimo, la viva e animata sensazione di “essere italiani”. Sto lavorando a una serie di video dal titolo  “Say it Like a Italian” e uno degli obiettivi è far conoscere la moltitudine di vini autoctoni italiani a un pubblico internazionale. Mostriamo agli spettatori la fonetica di un nome d’uva. Pignolo per un americano diventa PEEN-NYO-LO. La Ribolla Gialla? RE-BOL-LA-JYAH-LA. L’uva L’Ucelut è LOO-CHEY-LOOT, il fragoroso Schioppettino è SKEE-OH-PET-TEE-NO. Tazzelenghe diventa TAHTZ-ZAY-LEN-GAY.

28 anni fa ho pronunciato dolcemente: Tazz i len ghi. Poi ho scoperto che in friulano significa «taglia lingua».